Mio nonno era un tipo taciturno.

Gli piaceva sedere davanti alla porta, sotto il portico, a guardare la gente passare oltre la recinzione. «Vedi quei pazzi, come corrono? – mi chiedeva retoricamente, indicandoli con un dito. – Non hanno capito niente della vita. – continuava scuotendo la testa con disappunto, senza aspettare la mia risposta. – Cerca di non fare la stessa triste fine.» concludeva, riportando entrambi le mani sul bastone da appoggio. Non sopportava la frenesia della società moderna, lui che aveva speso la sua vita in mezzo ai campi, regolando le sue esigenze in base a ai ritmi della natura.

È lì che lo hanno ritrovato, immobile, su quella sedia dove aveva trascorso gli anni del tramonto a dondolare ricordi, pensieri e nostalgia. Nessuno dei passanti si era accorto di quanto fosse pallido, del fatto che fosse immobile, tantomeno che avesse smesso di respirare.

Nella mano stretta in un pugno custodiva una chiave arrugginita, legata da un cordino annerito a un vecchio portachiavi in plastica blu sbiadita, con l’etichetta di carta. Recava la scritta: “Giagià – capanno“, cioè il modo in cui lui mi chiamava – diceva che gli suonava strano pronunciare il nome che lui stesso portava – accanto al luogo dove custodiva gli attrezzi utilizzati per lavorare la terra, al quale a nessuno era mai stato consentito l’accesso.

La curiosità era troppa. Cosa voleva dirmi il nonno? Per caso nascondeva un segreto? Sarebbe finalmente stato svelato il motivo per cui non permetteva a nessuno di entrare nel capanno? Subito dopo i funerali, ancora frastornato, sono corso sul retro della casa, a controllare se quella chiave aprisse il lucchetto con cui era chiusa la lamiera doppia che fungeva da porta scorrevole. La chiave era proprio quella giusta. Nell’aprire, sono stato investito da quell’odore di fatica misto a dopobarba che respiravo quando, per salutarlo, baciavo mio nonno sulla fronte rugosa. Ho sentito chiaramente la sua presenza. Un vortice di polvere si è sollevato controluce, attraversato da un raggio che penetrava dal finestrone sul lato opposto e le ragnatele, fitte negli angoli tra le pareti, hanno oscillato per il vento entrato insieme a me. Il pavimento in cemento grezzo era coperto da un sottile strato di terra. Era senza dubbio un luogo vissuto, quello, ma molto ordinato. In fondo, su un piccolo tavolo erano appoggiati degli attrezzi: non sapevo che il nonno lavorasse il legno. Sotto il tavolo, una cassa impolverata era chiusa da un lucchetto, che mi sembrava identico a quello all’ingresso del capanno. D’istinto, mi sono avvicinato e ho infilato la chiave nel lucchetto, che si è aperto con un click. Ho guardato dietro di me, per assicurarmi di essere solo, come se stessi per compiere un gesto illecito. Avevo la sensazione di frugare tra i segreti del nonno e la cosa mi faceva sentire a disagio: mi tremavano le gambe, non sapevo cosa aspettarmi. Ma sentivo di dover andare avanti. Dopo aver deglutito l’indecisione, ho sollevato di scatto il coperchio della cassa. Sono rimasto immobile per qualche istante, del tutto esterrefatto di fronte a quello spettacolo: una valanga di contanti. Sui soldi, un biglietto laconico, scritto a penna con un tratto tremolante e qualche errore di ortografia che mi ha strappato un sorriso commosso.

Giagià, questi risparmi ti serviranno per non finire come quei pazzi là fuori. Fanne ciò che vuoi, purché prendi la vita con calma. E pensami ogni tanto. Tuo nonno Gianni.

Questo racconto è nato grazie a una sfida lanciata da Le sfumature segrete delle parole.

45 pensieri su “Non hanno capito niente

      1. Credo che, alla lunga, sarà l’unica soluzione possibile per l’umanità. E prima ci si rende conto di ciò, meglio è…

        Peccato ne frattempo dover comunque campare! 😅

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      2. No, neanche io per il momento. Ma voglio sperare e lavorare perché accada.
        Se ci riescono tanti altri, perché io non potrei? E sorvolo sulla qualità della scrittura (senza voler peccare di presunzione).

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      3. Sì, infatti: il ragionamento fila. E anche io, in fondo, sto lavorando per questo, anche se non mi faccio illusioni e porto avanti la mia vita, usando la scrittura come qualcosa di puramente piacevole per me e per chi mi vuol leggere, senza troppe velleità di fama e sussistenza… 😉

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      4. Vero. Ma quello che intendevo è che mi interessa la sussistenza, non la fama in sé. È ovvio che una implica l’altra. Certo, sapere che tante persone mi leggono e mi seguono sarebbe una grande, bella soddisfazione, non lo nego.

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  1. Grazie mille Enza, sono davvero felice che sia riuscita a collaborare! Mi ha commosso questo racconto, grazie davvero! Le cose che nascono di getto, spesso sono le più belle… grazie ancora! 🙂

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      1. Ed io sono felice di averti suscitao questa ispirazione! ❤ Sto iniziando a scrivenre la pagina dei ringraziamenti ai partecipanti, che inserirò stanotte, o domani in giornata. 🙂
        Buon pomeriggio! ❤

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  2. Ogni epoca ha le proprie nostalgie generazionali, punti d’intolleranza su ciò che segna un distacco netto dalle esperienze che c’hanno visto crescere in un determinato tempo. Ciò che oggi fa più paura non è il volo verso il futuro, ma il rischio di un salto nel vuoto esistenziale.

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    1. Speriamo che non sia così. Dobbiamo soltanto ascoltare di più noi stessi, le esigenze, la vita che vi parla. Dobbiamo essere indulgenti con ciò che ci sembra così impossibile, come prendere la vita con calma.
      Grazie di esser passato!

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      1. Indubbiamente la ricerca del’equilibrio personale è fondamentale, ma oggi dobbiamo affrontare una variante imprescindibile, rispetto al passato: l’impatto che abbiamo nei confronti del mondo, sia a livello individuale che collettivo, condizione che non possiamo fingere di non vedere. Il futuro, oggi più che mai, dipende da noi, e Covid ce lo ha dimostrato ampiamente. Un saluto.

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